La pittura bolognese al tempo di Vermeer

Agostino, Annibale e Ludovico Carracci, Gli incanti di Medea, affresco del Ciclo di Giasone e Medea nel piano nobile di Palazzo Fava, Bologna. Foto dal sito www.genusbononiae.it 

Agostino, Annibale e Ludovico Carracci, Gli incanti di Medea, affresco del Ciclo di Giasone e Medea nel piano nobile di Palazzo Fava, Bologna. Foto dal sito http://www.genusbononiae.it

In questo periodo a Bologna è diventato ridondante il nome del pittore fiammingo Jan Vermeer, grazie alla tanto acclamata mostra “La ragazza con l’orecchino di perla. Il mito della Golden Age. Da Vermeer a Rembrandt. Capolavori dal Mauritshuis” ospitata proprio tra le mura di palazzo Fava.
In merito a tanto clamore per l’avvenimento dell’anno, mi sono però chiesta in quanti tra le migliaia di visitatori pazientemente in coda per godere dei dipinti olandesi fossero a conoscenza della situazione artistica bolognese dello stesso periodo storico, ovvero della metà del Seicento.
Per comprendere l’importanza dell’arte di questo periodo, il punto di partenza sono le innovazioni pittoriche apportate dai Carracci durante la seconda metà del Cinquecento, le quali contribuirono al recupero della tradizione classica, ora basata e fusa allo studio del disegno dal vero.

Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli, Cappella del Rosario, Bologna, Chiesa di San Domenico. Foto dal sito www.guidobarbi.it

Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli, Cappella del Rosario, Bologna, Chiesa di San Domenico. Foto dal sito http://www.guidobarbi.it

Prendendo ad esempio gli affreschi con le Storie di Giasone eseguiti da loro proprio nella sala grande di palazzo Fava, sede della mostra tanto pubblicizzata, si noterà un dipingere nuovo che non ricalca più gli schemi accademici ma che si basa invece sulla verità visibile: gli oggetti sembrano avvolti dalla luce atmosferica, quella stessa luce che veniva studiata dagli artisti prima della Maniera, e che ora si insinua tra i corpi raffigurati tanto da renderli veri. Quell’impressione convertita alla prima in dipinto che fa sembrare la figura di Medea una bagnante ante litteram di Renoir.
Nel 1595 Annibale Carracci fu chiamato a Roma dal cardinale Odoardo Farnese che gli commissiona la decorazione delle sale del suo palazzo. La capitale fa proprio il nuovo linguaggio carraccesco, tanto che per almeno un quarto di secolo i migliori dipinti romani furono eseguiti da artisti bolognesi.
Quindi si può dire che una sosta a Bologna era d’obbligo per ogni artista che si definisse tale: la Scuola Bolognese si diffuse a dismisura, riscuotendo un successo tale da creare imitatori e seguaci ovunque.

Guido Reni, Gloria di san Domenico, Bologna, Chiesa di San Domenico. Foto dal sito www.interno.gov.it

Guido Reni, Gloria di san Domenico, Bologna, Chiesa di San Domenico. Foto dal sito http://www.interno.gov.it

Il più dotato dei discepoli carracceschi fu senza dubbio Guido Reni, tanto che Cesare Malvasia, grande narratore delle glorie pittoriche bolognesi, riporta un aneddoto in cui Annibale avrebbe suggerito a Ludovico di “…non gl’insegnar tanto a costui, che un giorno ne saprà più di tutti noi…”. Nei suoi dipinti si fanno strada le delizie della fede, la bellezza dei corpi e degli atteggiamenti che rendono gli esseri umani comparabili alla perfezione degli angeli, immersi in una natura lontana dalle asperità della vita quotidiana. La sua arte era tanto apprezzata in città che su richiesta di tutta la popolazione bolognese, egli ricevette l’incarico nel 1613 di dipingere la Gloria di san Domenico che illuminerà il catino absidale della cappella eretta in quegli anni a scrigno delle reliquie del santo.
La sua Pietà dei Mendicanti poi, farà a lungo da modello alle generazioni future di artisti, come scrive lo storico dell’arte Eugenio Riccomini, tanto che il braccio inerme del suo Cristo sembra sia stato ripreso e riproposto da David centosessant’anni dopo nel suo Marat assassinato.
Il Senato cittadino, a seguito della terribile peste che decimò la popolazione bolognese, gli diede nel 1630 l’incarico di dipingere un enorme stendardo di seta di quasi quattro metri d’altezza, dove si raffiguravano la Madonna ed i santi protettori della città a ringraziamento del termine dell’epidemia. Nella pala la sua nuova maniera si allontana sempre di più dal naturalismo di matrice carraccesca per approdare ad una raffigurazione di corpi eterei ed impalpabili, quasi a voler rappresentare la sola bellezza dell’anima.
Questo clima di pacato classicismo permeerà i seguaci del Reni e quindi il fare artistico bolognese per tutto il secolo. Angelo Michele Colonna (1604-1687) con Agostino Mitelli (1609-1660) inaugurano la stagione del quadraturismo bolognese, divenendo i maggiori esponenti della quadratura in Italia. Esordiscono nel 1657 a Bologna con la grandiosa decorazione barocca della cappella del Rosario nella Chiesa di San Domenico, posta proprio di fronte alla cappella dell’Arca affrescata all’inizio del secolo dal Reni. Ed il mutamento di gusto salta agli occhi: da una parte un’immagine solenne di bellissime figure e dall’altra un tripudio di intrecci architettonici e decorativi con annesse finte sculture e rosoni e vasi di fiori.
Il compendio di questo confronto lo troviamo nelle opere di Domenico Maria Canuti: allievo del Reni prima ed ammiratore del fare barocco di Pietro da Cortona poi. L’Apoteosi di Ercole in Olimpo in Palazzo Pepoli risente senza dubbio di più della tradizione romana che bolognese se non fosse per i telamoni che ricordano quelli dipinti dai Carracci per dividere le scene dei loro fregi.
Alla fine del Seicento la pittura si libera sempre più dai dettami didattici e diviene semplice segno di virtuosismo personale. Gli ultimi esponenti del gusto barocco bolognese, dopo l’apprendistato presso il Colonna ed il Canuti, sono Giuseppe ed Antonio Rolli che dipingono con il sorprendente effetto scenografico delle spettacolari decorazioni, tipiche della pittura barocca, l’unica navata della Chiesa di San Paolo Maggiore.

a cura di Elisa Melchiorri